COSA VEDERE IN CALABRIA: IL MITO DI SCILLA E CARIDDI
Scilla (in greco antico: Σκύλλα, Skýlla) è un mostro marino della mitologia greca. Secondo la versione più comune, Scilla è figlia del dio Forco (o Forcide) e di Ceto. Secondo la tradizione riportata dall'Odissea, invece, è figlia di una dea, chiamata Crateide.
Altre leggende la dicono nata da Forbate e da Ecate, oppure da quest'ultima e Forco. La si considerava anche figlia di Tifone ed Echidna, oppure di Zeus e di Lamia; in questo caso, fu l'unica figlia ad essere risparmiata dalle ire della gelosa Era.
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Mito
All'inizio Scilla era una ninfa dagli occhi azzurri, figlia di Forco e Ceto. Scilla viveva in Calabria ed era solita recarsi sulla spiaggia di Zancle e fare il bagno nell'acqua del mare. Una sera, vicino alla spiaggia, vide apparire dalle onde Glauco, che un tempo era stato un mortale, ma oramai era un dio marino metà uomo e metà pesce.
Scilla, terrorizzata alla sua vista, si rifugiò sulla vetta di un monte che sorgeva vicino alla spiaggia. Il dio, vista la reazione della ninfa, iniziò ad urlarle il suo amore, ma Scilla fuggì lasciandolo solo nel suo dolore.
Allora Glauco si recò dalla maga Circe e le chiese un filtro d'amore per far innamorare la ninfa di lui, ma Circe, desiderando il dio per sé, gli propose di unirsi a lei.
Glauco si rifiutò di tradire il suo amore per Scilla e Circe, furiosa per essere stata respinta al posto di una mortale, volle vendicarsi.
Quando Glauco se ne fu andato, preparò una pozione malefica e si recò presso la spiaggia di Zancle, versò il filtro in mare e ritornò alla sua dimora.
Quando Scilla arrivò e s'immerse in acqua per fare un bagno, vide crescere molte altre gambe di forma serpentina accanto alle sue, che nel frattempo erano diventate uguali alle altre. Spaventata fuggì dall'acqua, ma, specchiandosi in essa, si accorse che si era completamente trasformata in un mostro enorme ed altissimo con sei enormi teste di cane lungo il girovita, un busto enorme e delle gambe serpentine lunghissime. Secondo alcuni dalla vita in su manteneva il corpo di una vergine, mentre per altri possedeva sei teste serpentine altrettanto mostruose.
Per l'orrore Scilla si gettò in mare e andò a vivere nella cavità di uno scoglio vicino alla grotta dove abitava anche Cariddi.
Scilla viene descritta da Omero nell'Odissea, XII, 112, da Ovidio nei libri XIII-XIV delle Metamorfosi e da Virgilio nell’Eneide, III.
«Nel destro lato è Scilla; nel sinistro / È l’ingorda Cariddi. Una vorago / D’un gran baratro è questa, che tre volte / I vasti flutti rigirando assorbe, / E tre volte a vicenda li ributta / Con immenso bollor fino a le stelle. / Scilla dentro a le sue buie caverne / Stassene insidïando; e con le bocche / De’ suoi mostri voraci, che distese / Tien mai sempre ed aperte, i naviganti / Entro al suo speco a sè tragge e trangugia. / Dal mezzo in su la faccia, il collo e ’l petto / Ha di donna e di vergine; il restante, / D’una pistrice immane, che simíli / A’ delfini ha le code, ai lupi il ventre. / Meglio è con lungo indugio e lunga volta / Girar Pachino e la Trinacria tutta, / Che, non ch’altro, veder quell’antro orrendo, / Sentir quegli urli spaventosi e fieri / Di quei cerulei suoi rabbiosi cani.»
(Virgilio, Eneide)
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Storia di Cariddi
In principio vi era una naiade, figlia di Poseidone e Gea, dedita alle rapine e famosa per la sua voracità. Un giorno rubò a Eracle i buoi di Gerione e ne mangiò alcuni. Allora Zeus la fulminò e la fece cadere in mare, dove la mutò in un gigantesco mostro, grande quasi quanto metà della città di Roma. Simile a una lampreda, con una gigantesca bocca piena di varie file di numerosissimi denti e una voracità infinita, Cariddi risucchiava l'acqua del mare e la rigettava (fino a tre volte al giorno), creando enormi vortici che affondavano le navi in transito. Le enormi dimensioni del mostro facevano sì che sembrasse tutt'uno col mare stesso.
La leggenda la situa presso uno dei due lati dello stretto di Messina, di fronte all'antro del mostro Scilla.
Le navi che imboccavano lo stretto erano costrette a passare vicino a uno dei due mostri.
In quel tratto di mare i vortici sono causati dall'incontro delle correnti marine[1], ma non sono di entità rilevanti.
Secondo il mito, gli Argonauti riuscirono a scampare al pericolo, rappresentato dai due mostri, perché guidati da Teti madre di Achille, una delle Nereidi.
Cariddi è menzionata anche nel canto XII dell'Odissea di Omero, in cui si narra che Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo, per questo perse al posto di tutti gli uomini i rematori migliori. Tuttavia, dopo che Elio e Zeus distrussero la sua nave, Odisseo per poco non finì nelle sue fauci, aggrappandosi a una radice di un fico sull'isola di Cariddi, prima di venire inghiottito.
Anche Virgilio nell’Eneide, libro III ne fa una descrizione.
«Nel destro lato è Scilla; nel sinistro / È l’ingorda Cariddi. Una vorago / D’un gran baratro è questa, che tre volte / I vasti flutti rigirando assorbe, / E tre volte a vicenda li ributta / Con immenso bollor fino a le stelle.»
(Virgilio, Eneide)
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- Scilla e Cariddi in un dipinto di Johann Heinrich Füssli (Di Johann Heinrich Füssli - The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN: 3936122202., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=151187)
- Scilla e Cariddi in una vignetta inglese di fine Settecento (Di James Gillray - Library of Congress, Prints & Photographs Division, LC-USZC4-3137 (color film copy transparency), uncompressed archival TIFF version (4 MB), level color (pick white point), cropped, and converted to JPEG (quality level 88) with the GIMP 2.4.5., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2285374)
Ipotesi filologica delle origini
"Nell’antichità, a causa della tenuità e precarietà dell'informazione, spesso accadeva che voci e dicerie col passare dei secoli si accrescessero (fama crescit eundo, dicevano infatti i latini, o anche rumor multa fingit) fino a perdere il loro originario significato, talvolta addirittura trasfigurandosi in mitologia; quella della pericolosità della navigazione all’imboccatura settentrionale dello stretto di Messina, ossia in corrispondenza del passaggio tra la penisoletta di Scilla in Calabria e il capo siciliano di Cariddi, pericolosità considerata tale da arrivarsi addirittura a far derivare questi nomi da quelli di due mitologici spaventosi mostri divoratori di naviganti, in verità non corrisponde per nulla alla realtà delle cose, non essendoci infatti alcuna evidenza storica che ci confermi un particolare rischio nell’affrontare quel passaggio marittimo mediterraneo, il quale inoltre non fu nemmeno mai universalmente riconosciuto come rischioso quanto lo furono invece quello di Capo Horn, quello di Buona Speranza e quello di Agulhas, passaggi questi ancor oggi battuti da violenti venti e possenti correnti oceaniche.
Da dove nasceva allora questa paurosa fama di Scilla e Cariddi? Probabilmente una certa pericolosità per le piccole e leggere imbarcazioni antiche doveva esserci, ma questo evidentemente prima che i frequenti e devastanti terremoti e maremoti succedutisi nel corso del tempo in quella sfortunata zona ne avessero sicuramente mutato la geografia sottomarina.
Il primo a parlarci di Scilla e Cariddi come di mitici mostri sanguinari fu Omero nella sua Odissea, poema a cui poi tanti antichi scrittori si rifecero data l’autorevolezza della fonte. Nacque pertanto più tardi il detto: ‘Incappa in Scilla volendo evitare Cariddi’ (Incidit in Scillam, cupiens evitare Charybdim) per significare ‘cadere dalla padella nella brace’; ma in realtà schille (σϰίλλαι) nome greco calabrese, e caridi (ϰαρίδες), nome greco siciliano, avevano lo stesso significato, trattandosi infatti di due dei tanti nomi che allora nel Mediterraneo si davano ai gamberetti; un altro per esempio era palinuri (παλίνουροι), ma questo si usava più a nord, cioè per indicare quei crostacei che si potevano trovare e pescare appunto a Capo Palinuro (per inciso, anche questo nome poi fu mitizzato). Molto probabilmente dunque ‘essere tra Scilla e Cariddi’ non significò in origine trovarsi tra due pericoli di pari gravità, come più tardi invece si fraintese, ma volle semplicemente dire ‘se non è zuppa è pan bagnato’, cioè ‘è inutile che tu te ne stia a riflettere se far sosta a Scilla o a Cariddi, tanto sempre gamberetti dovrai mangiare’. E dovevano essere anche crostacei molto buoni perché Il Suida narra che il famoso buongustaio romano Apicio, autore di un ricettario di cucina vissuto tra 1º secolo a.C. e 1º secolo d.C., era talmente ghiotto di gamberi, gamberetti e astachi che girava il Mediterraneo su una sua nave recandosi e fermandosi là dove c’era fama che si trovassero i migliori crostacei; e proprio per questo motivo fu costretto a soggiornare per qualche tempo a Minturno nel Lazio, perché ne aveva fatto proprio là scorpacciate tanto smodate da restarne ammalato. Suida, Lexicon, graece et latine. T.3, p. 266. Halle e Brunswick, 1705."
Le Sirene, Scilla e Cariddi – Odissea
Trascorso un anno presso la maga Circe, Ulisse e i suoi compagni ripartono e giungono nella terra dei Cimmerii. Qui c’è l’accesso all’Ade, il regno dei morti, dove Ulisse incontra la madre Anticlea, Achille e l’indovino Tiresia che gli predice il ritorno in patria, ma anche la morte di tutti i suoi compagni.
Ripreso quindi il mare, Ulisse incontra le Sirene dal canto ingannatore e due terribili mostri: Scilla e Cariddi. E intanto velocemente giunse la nave all’isola delle due Sirene: un vento favorevole la spingeva. Allora subito il vento cessò e venne la bonaccia tranquilla: un dio addormentò le onde.
Si alzavano in piedi i compagni: ammainarono la vela e la gettarono in fondo alla nave. Poi sedevano ai remi e facevano biancheggiare l’acqua con le lisce pale d’abete. E io tagliavo una grossa forma di cera in piccoli pezzi con l’affilata arma di bronzo e li schiacciavo con le mani robuste. E ben presto si ammolliva la cera poiché la vinceva la grande mia forza, e lo splendore del Sole sovrano, figlio di Iperione.
Uno dopo l’altro, la spalmai sulle orecchie a tutti i compagni. Essi mi legarono nella nave le mani e i piedi, stando io là ritto alla base dell’albero: e a questo allacciavano le funi. Poi si sedevano e andavano battendo coi remi il mare.
Ma quando ero tanto lontano quanto si fa sentire uno che grida, e rapidamente loro spingevano, non sfuggì alle Sirene che passava vicino una celere nave, e intonavano un canto melodioso: «Vieni qui, Odisseo glorioso, grande vanto degli Achei: ferma la nave, se vuoi ascoltare la nostra voce.
Nessuno mai è passato di qui con la nave senza prima udire dalle nostre bocche la voce dal dolce suono: ma poi se ne va con viva gioia e conosce più cose.
Noi sappiamo tutto quello che nell’ampia pianura di Troia soffrirono gli Argivi e i Troiani per volontà degli dèi. E sappiamo anche quanto avviene sulla terra che nutre tanta gente». Così dicevano emettendo la bella voce.
E io volevo ascoltare e ordinavo ai compagni di sciogliermi e facevo segni con gli occhi. Quelli curvandosi remavano. Subito si alzavano in piedi Perimede ed Euriloco, e mi legavano con molte corde e mi stringevano ancora di più. Dopo che furono passati oltre, e non udivamo più la voce delle Sirene e neppure il canto, in fretta i miei fedeli compagni si tolsero via la cera che avevo spalmato loro sulle orecchie, e sciolsero me dai legami. Noi navigavamo dentro lo stretto, gemendo.
Da una parte c’era Scilla; e dall’altra la divina Cariddi cominciò spaventosamente a inghiottire l’acqua salata del mare. E quando la rigettava, come una caldaia sopra un gran fuoco, gorgogliava l’onda rimescolandosi tutta: la schiuma era sollevata in alto e ricadeva sulla vetta di entrambi gli scogli. Ma appena lei riassorbiva l’acqua, tutta dentro si mostrava sconvolta: all’intorno la roccia mugghiava terribilmente, sotto compariva la terra nera di sabbia.
La pallida paura afferrava i miei compagni. Noi guardavamo verso di lei con il terrore della morte. E intanto Scilla mi ghermì dal fondo della nave sei compagni, che erano i migliori per forza di braccia. Volsi lo sguardo di sulla prua alla nave e a un tempo dietro i compagni: ma ormai ne vidi solo i piedi e le mani mentre venivano levati in alto.
E gridando mi chiamavano per nome – ed era allora l’ultima volta – disperati. Come quando su di un promontorio il pescatore con una lunga canna butta giù ai pesci piccoli l’inganno dell’esca, lanciando in mare il corno di bue selvatico che protegge la cordicella sopra l’amo; e guizza il pesce quando egli lo cattura e lo getta fuori dell’acqua: così si dibattevano quelli a venir sollevati verso le rocce.
E là sull’entrata della spelonca lei se li mangiava che gridavano ancora, e mi tendevano le mani nella mischia atroce. Quella fu davvero la cosa più miserevole che vidi con questi miei occhi fra tutte le disavventure che soffersi, esplorando le vie del mare. (da Odissea, canto XII)
Note al testo
Sirene: secondo la mitologia greco-romana, mostri marini con la testa di donna e il corpo di uccello. Avevano il potere di affascinare con il loro canto i marinai, costringendoli a naufragare sugli scogli.
Nel Medioevo il termine «sirena» indicava una figura di donna con la parte inferiore del corpo a forma di pesce.
• bonaccia: stato del mare in calma e con assenza di vento. • Argivi: gli abitanti di Argo; nome esteso successivamente a indicare tutti gli Achei.
• Perimede ed Euriloco: due compagni di Ulisse.
• Scilla: ninfa bellissima trasformata in un terribile mostro con dodici piedi, due teste e sei bocche.
• Cariddi: ninfa bellissima trasformata in mostro. Risiedeva in uno scoglio marino di fronte a Scilla e tre volte al giorno inghiottiva le onde del mare, rigettandole poi per altrettante volte.
- fonte : https://it.wikipedia.org/wiki/Scilla_(mostro); https://it.wikipedia.org/wiki/Cariddi; testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo; possono applicarsi condizioni ulteriori. Vedi le condizioni d'uso per i dettagli.
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