Cosa vedere in Calabria: Il mistero dei santi senza volto nel complesso di San Fantino a Palmi
La chiesa, il monastero e la Cripta paleocristiana di San Fantino di Taureana, rappresentano le origini cristiane della Calabria, ed anche Fantino vissuto nel periodo romano sec. IV, è il santo più antico della regione, attestato da fonti storiche certe.
Le prime notizie si hanno grazie ai più antichi testi bibliografici di cui è dotata la letteratura calabrese: due canoni in lingua greca, di san Giuseppe Innografo del secolo VIII e il canone XXXIII 24 luglio, probabilmente della stessa epoca, scritto dal monaco Eutimio; ma il più pregiato ed antico testo agiografico calabrese, è il bios greco di San Fantino scritto da Pietro vescovo occidentale (probabilmente vescovo di Siracusa) natio di Taureana. In questo testo parla tra l’altro di un monastero di monache che avevano il compito di accudire la tomba del santo e di ricevere la grande moltitudine di pellegrini e fedeli che si recavano per pregare al cospetto della Sante Reliquie di San Fantino, “fonte di numerosi miracoli”. In questo bios ne sono descritti 20 “per diretta testimonianza”, (Codice Vaticano Graeco N. 1989 (Basil. XXVIII)", quasi tutti accaduti nel Tempio del Santo, ed uno compiuto in vita nell'atto di attraversare con le cavalle il Fiume Metauro (oggi Petrace), questo miracolo è stato "lo scenario" dell'Icona Madre del Santo.
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Sappiamo che la chiesa e il monastero furono distrutti e ricostruiti più volte, tesi confermata da una estesa indagine archeologica effettuata dall’università di Roma “La Sapienza”, d’intesa con la Soprintendenza per i Beni Archeologici, che ha prodotto una serie di importanti scoperte, tra le quali citiamo: una necropoli romana/bizantina; altre strutture murarie della basilica altomedioevale; le mura romane della cisterna che alimentava la città, accertando, tra l’altro, il riuso della struttura come luogo cristiano avendo scoperto nella parete Est un ciclo di affreschi con figure di santi lasciati misteriosamente allo stato di sinopia; alcuni vetri colorati e decorati con finiture dorate, forse appartenute alle vetrate della basilica (presentati nel convegno sulle vetrate medioevali a Salerno), una serie di sepolture all’interno della navata nord, tra cui forse i resti di due Vescovi (Giorgio e Giovanni) citati nel Bios del Santo, i resti di molti monaci probabili membri del monastero maschile e uno scheletro femminile (l’unico) che potrebbe essere attribuito a Gregoria (santa) egumena del monastero femminile di S. Fantino e miracolata dal Santo in giovane età; negli scavi esterni è stato rinvenuto un raro trifollaro normanno (Ruggero I 1085-1101) in buono stato di conservazione coniato nella zecca di Mileto, che attesta la frequentazione del luogo in quel periodo.
A LATO: Trifollaro Normanno
Come detto in più di 1700 anni di storia gli edifici furono continuamente modificati o ricostruiti dopo i numerosi terremoti. Le fonti storiche attestano che una prima ricostruzione della chiesa e del monastero risale al 1552 ad opera del Conte Pietro Antonio Spinelli di Seminara, (a quel tempo tutto il territorio dell'attuale Palmi era compresa nella contea degli Spinelli) come si rileva dalla lapide gentilizia che oggi è tornata sull'ingresso della chiesa.
Altre notizie importanti le troviamo in una platea del 1645 redatta dal notaio Marcantonio De Paola di Seminara che ci consente di conoscere com'era l'allineamento dell'edificio: " ... a croce greca con due archi di mattoni, orientato sull'asse NO-SE con l'ingresso principale rivolto alla torre di Pietrenere. Accanto alla chiesa sorgeva un monastero con sei celle e un corridoio che portava ad un "coro" dietro del quale si trovava una scala in legno che portava sotto il monastero.
L'ultima ricostruzione risale al 1857 ad opera dell'abate Pietro Militano; la chiesa rimase aperta al culto fino al 1953. Del monastero però resta una traccia: la scala che portava al piano superiore del monastero.
L'antica mappa Greca E il mistero dei Santi senza volto
La Cripta di San Fantino ha ospitato l'urna con le reliquie di San Fantino e numerose spoglie di santi vescovi. Probabilmente per la presenza di una sorgiva di acqua, alcuni studiosi hanno ipotizzato che essa fu ricavata da un palatium signorile romano, altri da un ninfeo pagano, ma l'ipotesi più accreditata sembra essere che la Cripta che oggi vediamo, fu realizzata appositamente come sepolcro e battistero paleocristiano, utilizzando le pareti di una cisterna di epoca romana ormai in disuso per l’abbandono della città.
L’ambiente ipogeo fu scoperto nel 1952 da alcuni cittadini di Palmi tra cui Sig. Vincenzo Palamara, seguendo le indicazioni di una antica mappa che aveva trovato in un monastero in Grecia, (durante la seconda guerra mondiale).
"La pergamena benché fosse scritta in greco, vi era disegnata una mappa nella quale si distinguevano la costa della Calabria di fronte al Tempio di S. Fantino, con la chiara indicazione di una chiesa e del Sacro Sepolcro sotterraneo da cui partiva un cunicolo che portavano alla vicina Torre; da questa, arrivava poco distante ad alcune stanze sempre sotterranee, e vicino, una scalinata che scendeva alla grotta sottostante che era semi sommersa dal mare. Forse all’epoca all'intero venivano ancorate delle barche, tale affermazione è data dal fatto che sarebbero presenti nelle pareti degli anelli in bronzo per ancorare le imbarcazioni". Questa testimonianza è stata a noi resa nel 1994 dal Sig. Pietro Bagalà (Pietro Vigna), che faceva parte insieme al Sig. Palamara, il Sig. Iannelli ed altri, della spedizione che scoprì la Cripta. Successivamente sono stati avvisati l'ispettore ai monumenti Prof. Lacquaniti e gli esperti delle Belle Arti, che s'impegnarono ad effettuare i lavori di scavo e relazionare in merito alla scoperta. I risultati sono stati straordinari, perché con detti scavi sono state confermate esattamente le notizie contenute nell'antica mappa, non solo per la presenza di un ambiente ipogeo(Cripta), ma anche per il cunicolo che va verso la Torre e quindi all'abitato della città antica di Taurianum; di questa scoperta esiste una importante testimonianza fotografica risalente al 1952. Pertanto è altamente probabile che anche le notizie di altri ambienti sotterranei e della scalinata scavata nella roccia che porta alla grotta a mare siano attendibili!
La Cripta rapidamente è divenuta oggetto di studi e pubblicazioni, poi caduta nell’assoluto abbandono a causa del disinteresse generale fino al 1989, quando alcuni volontari, in seguito organizzatisi nel 1994 in associazione, presero coscienza che i beni culturali erano solo oggetto di attenzione “accademica” (convegni, pubblicazioni ecc.) ma di fatto lasciati in abbandono! Nel 1998, la Soprintendenza per i Beni Archeologici, ha affidato l’adozione del monumento agli stessi volontari del Movimento Culturale San Fantino di Palmi.
Da quel momento è iniziata una lenta, ma costante valorizzazione del luogo.
La Cripta si presenta tutta ipogea e di forma rettangolare con tetto a botte attribuita al IV secolo per la tipologia della struttura muraria, per alcune epigrafi latine trovate in loco di cui una del IV secolo di un vescovo sposato di nome Leucosius, ma anche perché era sepolcro di San Fantino dopo la sua morte intorno al 336.
Alle pareti sono presenti archi ciechi riconducibili alla fase della costruzione del sepolcro, nella parete orientale si apre una finestrella a bocca di lupo, al disotto della quale, nella campagna di scavo del 2003, è stato messo in luce uno strato di affresco sconosciuto e un'altra porzione dello stesso ciclo di affreschi, che potrebbe occupare l'intera parte inferiore della parete. Tale strato dipinto si è infatti miracolosamente salvato grazie alla successiva sovrapposizione di altri intonaci e di una vasca. Del resto, proprio per la parete est, le cronache relative alla scoperta del vano ipogeo nel 1952 raccontano di affreschi policromi, parzialmente asportati. A causa dell'umidità del luogo, non tutta la nuova decorazione è stata messa in luce: nella sua parte inferiore, si vede un elemento rettangolare allungato, delimitato da linee verticali azzurre e riempito da cerchi, anch'essi azzurri, disposti orizzontalmente e con, all'interno, elementi floreali in rosso su fondo giallo. Questo motivo decorativo appare in molti affreschi di scuola bizantina. Un monaco copto in pellegrinaggio al sito, ebbe ad affermare con sicurezza da esperto, che il lacerto di affresco rappresenti la "Croce gemmata" spesso raffigurata nei luoghi raggiunti dall'iconoclastia nell'sec. VIII.
Nelle pareti laterali dentro le arcate si scorgono ancora raffigurazioni ieratiche su sfondo bianco e decorazioni geometriche con misteriose raffigurazioni di santi, si riconoscono le aureole e alcune iniziali in greco. Si tratta di un ciclo pittorico di scuola bizantina realizzato a fresco e si scorgono più strati, quelli più antichi in parte nascosti da superfetazioni di intonaco, possono risalire al primo e al secondo periodo iconoclasta. Personalmente ho condotto una ricerca presso le catacombe paleocristiane di S. Giovanni a Siracusa ed effettuando sopralluoghi in molte chiese rupestri della Puglia. Questo studio mi ha permesso di ipotizzare che il menzionato ciclo pittorico a S. Fantino, possa risalire probabilmente al X- XI secolo, Precisamente mi riferisco ai due affreschi campiti nella seconda arcata della parete sud, superstiti solo in parte e di difficilissima lettura, che costituiscono quasi certamente solo una porzione di un ciclo agiografico più complesso. Nella raffigurazione si distinguono due santi dipinti senza volto e soltanto in quello del lato est si leggono le iniziali in greco di s. Giovanni Crisostomo; nell’altra figura del lato ovest, non si decifra l’iscrizione che pur sembra esserci. Nel fondo, a causa del pessimo stato conservativo è difficile capirne la rappresentazione.
Lo studio avanza un’ipotesi ancora da approfondire, cioè che il ciclo pittorico di S. Fantino forse di epoca normanna o tardo periodo bizantino, riproduca quelli dello strato sottostante più antichi e deteriorati dal tempo, che testimoniavano una rara raffigurazione “aniconica”, cioè “soggetta al divieto di raffigurazione del volto umano e divino come precetto di alcune religioni e quale norma fondamentale dell’antico ebraismo e del giudaismo medievale e moderno. Questa forma appare anche nell’Islam, principalmente per quanto riguarda il volto di Maometto e di Alì, ma emerge occasionalmente all’interno del cristianesimo nei movimenti iconoclastici”.
Questo ciclo pittorico sembrerebbe essere stato concepito come sintesi tra quanti si opponevano alle immagini, gli iconoclasti, i quali sostenevano che raffigurare Cristo significava rappresentarne solo la natura umana essendo la natura divina incircoscrivibile e quindi scindere l’unità della sua Persona, e gli conoduli, i difensori delle immagini, che ribattevano agli oppositori: come potreste riconoscere Cristo al suo ritorno se perderete la memoria del suo Santo Volto Personale?] Cfr. Pàvel Nikolàjevič Evdokìmov, Teologia della bellezza, Milano, San Paolo, 1990, p. 198.
Questa tesi trova maggiore fondamento se si confrontano le analogie tra questo ciclo pittorico e quello di santa Marina di Delianuova (area appartenente a quel tempo alla diocesi di Tauriana): in entrambi i casi sono presenti all’interno dell’area affrescata motivi geometrici (in uso nei luoghi di culto iconoclasti e aniconici) ed anche le figure dei santi ivi raffigurati in una cupoletta non hanno il volto, soluzione questa, a mio sommesso parere, ricercata e voluta.
Durante un sopralluogo presso il sito di santa Marina di Delianuova, l’illustre esperta, prof.ssa Marina Falla Castelfranchi - Ordinaria di Archeologia e storia dell’arte paleocristiana e bizantina presso l’Università del Salento, di fronte all’ipotesi che gli affreschi di quei ruderi appartenessero all’arte iconoclasta ha fra l’atro affermato: “se così fosse sarebbe un documento storico eccezionale che si legherebbe comunque alla presenza, testimoniata anche da fonti di vario tipo, per esempio dai sigilli che attestano il legame tra le diocesi greche dell’Italia meridionale soprattutto di Calabria e Sicilia con il Patriarcato di Costantinopoli, noi sappiamo dalle fonti che i nostri vescovi tra la metà dell’ottavo e la metà del nono secolo seguivano l’iconoclastia. Di sicuro abbiamo la testimonianza per il vescovo di Siracusa Teodoro dell’830 circa e del suo collega siracusano che era appunto iconoclasta e questo ce lo dice la vita di un santo S. Gregorio Decapolita che passa da Otranto e trova un vescovo iconoclasta. Abbiamo poi numerose fonti che ci attestano addirittura agiografie prodotte in scriptoria siciliani, per esempio la vita si S. Leone di Catania che una illustre studiosa di questo genere di letteratura.
Domanda posta dal prof. D. Minuto - membro della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, componente del Comitato permanente per gli Incontri di Studi Bizantini della Calabria]:
Lei ha parlato di presenze iconoclaste presso il vescovo di Siracusa nell’ottavo e nono secolo, ora noi conosciamo dalla vita di S. Fantino di Taureana che Pietro si firma vescovo occidentale e mi pare di aver sentito dalla professoressa Vera von Falkenhausen che questo poteva essere indicazione dell’appellativo del vescovo di Siracusa e certamente in questa vita si parla di contatti stretti con Siracusa, perciò si può ipotizzare da questo, che anche a Taureana nell’epoca in cui scrisse il vescovo Pietro la vita di S. Fantino appunto, c’era o ci poteva essere questa tendenza iconoclasta ? Qui noi ci troviamo certamente in area proprio appartenete alla diocesi di Taureana in quell’ epoca. Inoltre qua vicino abbiamo Scido, dove c’era il monastero di S. Fantino e accanto, la località santa Ciriaca, dove nello stesso documento che parla di S. Fantino di Scido, si parla di Santa Ciriaca di Scido. Quindi siamo in una zona certamente frequentata in quella età.
[Marina Falla Castelfranchi]: Io direi di si! Perché le diocesi della Calabria come quelle della Sicilia sono tutte sotto la giurisdizione di Costantinopoli, giurisdizione ecclesiastica, ma in questo momento anche amministrativa, perche è il momento in cui lo stesso Leone l’Isaurico - colui sotto il quale inizia proprio il periodo iconoclasta - lega all’impero bizantino tutta una serie di territori fra cui la stessa Calabria che proprio da questo momento in poi prenderà il nome di Calabria. Territori che invece amministrativamente erano legate a Roma quindi pagavano le tasse al Papa, nonostante le diocesi fossero di segno greco e siccome a Costantinopoli c’era l’iconoclastia, a questo punto non ci dobbiamo meravigliare se anche le diocesi greche dell’Italia meridionale seguissero appunto l’iconoclastia. Anche a Napoli si prospetta una ipotesi del genere, la signora Francesca Luzzati Laganà ha scritto in proposito. Abbiamo tutta una serie di documenti interessanti che ci inducono ad affermare che l’iconoclastia era presente nell’Italia. Quando nel 726 l’Esarca iconoclasta sbarca a Ravenna proprio per proclamare l’iconoclastia, venne ucciso dalla popolazione, perché in Italia la cultura artistica, soprattutto pittorica invece, è segnata da sempre, ad una vocazione all’immagine, quindi quando noi troviamo decorazioni di questo genere siamo portati naturalmente a legarla, al meridione soprattutto perché ci troviamo in terre bizantine, la Calabria è provincia bizantina fra le più antiche! Perché esiste proprio una geografia diversa dell’Italia bizantina, e quindi non ci dobbiamo meravigliare di trovare testimonianze del genere in Italia. Però ribadisco, se è così, ed è così, finora è l’unica che si è conservata in Calabria, bisogna fare quale cosa per questo monumento[1].
[1] Domenico Bagalà, intervista tratta da “Luoghi dell’infinito” quaderni filmati di storia calabrese – Delianuova 1998
SAN FANTINO: IL SACRO RECINTO E L'ICONOCLASTIA
Si è voluto “per rispetto” rappresentare comunque all’interno del sacro recinto del santo “gli amici di Dio” (i santi), attraverso una rara raffigurazione “aniconica”, già presente in situ, anche se poco diffusa nella provincia bizantina calabrese: non dipingere il volto! Come abbiamo visto, il volto risulta essere elemento distintivo (i santi come le persone si riconoscono dai volti), inoltre il volto è il Santo, teologicamente essenziale. L’icona in quanto rivelazione e presenza, favorisce l’incontro con il mistero in uno sguardo contemplativo. La preghiera del salmista inizia «Signore mostrami il tuo volto!», pertanto una raffigurazione sacra di santi senza volto poteva ritenersi tollerata dai sostenitori iconoclasti.[1]
La ricorrete letteratura ci informa però che in Italia l'iconoclastia non ebbe molta diffusione, tuttavia va tenuto conto che le diocesi della Calabria come quelle della Sicilia a quell'epoca erano tutte sotto la giurisdizione di Costantinopoli, giurisdizione ecclesiastica, ma in questo momento anche amministrativa, perché è il momento in cui lo stesso Leone l’Isaurico - colui sotto il quale inizia proprio il periodo iconoclasta - lega all’impero bizantino tutta una serie di territori fra cui la stessa Calabria che proprio da questo momento in poi prenderà il nome di Calabria. Territori che invece amministrativamente erano legate a Roma quindi pagavano le tasse al Papa, nonostante le diocesi fossero di segno greco e siccome a Costantinopoli c’era l’iconoclastia ed anche l’autore del bios di S. Fantino Pietro cittadino di Tauriana era vescovo di Siracusa capitale bizantina d’Occidente, a questo punto non ci si deve meravigliare se anche la diocesi greca di Tauriana seguisse in qualche modo appunto l’iconoclastia. Quindi dobbiamo ritenere che è del tutto plausibile trovare testimonianze del genere a Taureana[2].
[1] Fondamentalmente la teologia delle icone la troviamo nel concilio Ecumenico Niceno II (a.787) che ha condannato gli iconoclasti (coloro che spezzano le icone (dal greco iconoclasti eikόn, immagini, e klάό, spezzo). A questo concilio partecipò il vescovo di Tauriana Teodoro, il quale firmò i documenti finali, terzo dopo il Papa e l’Imperatore. Il VII. Il Concilio ecumenico (II di Nicea) dichiara: «L’icona è per noi l’occasione di un incontro personale, nella grazia dello Spirito Santo, con colui che essa rappresenta… più il fedele guarda le icone, più si ricorda di Colui che vi è rappresentato e si sforza di imitarlo; testimonia rispetto e venerazione ma non adorazione che è dovuta unicamente a Dio». Il secondo periodo iconoclasta (813-842) ne sancì l’ortodossia. Il concilio dell’843 ripropose i canoni dei sette concili ecumenici precedenti, dichiarò legittimo il culto delle icone e l'iconoclastia fu nuovamente condannata come eresia. Questo avvenimento fu celebrato l'11 marzo 843 e tutt'ora si ripete ogni prima domenica di Quaresima.
[2] Si tratta di un ciclo pittorico a fresco realizzato all’interno del sito archeologico e monumentale di San Fantino di Taureana di Palmi e precisamente nell’ambiente ipogeo di età romana noto come Cripta paleocristiana, risalente al sec. IV d. C.. Da uno studio da noi condotto si ipotizza che il ciclo pittorico possa risalire probabilmente all’ottavo/nono secolo, il che significa che questi affreschi possono essere legati al I o II periodo iconoclasta che va dal 726 al 843, durante il quale fu proibito di rappresentare le immagini negli edifici di culto. Questa tesi trova maggiore fondamento se si confrontano le analogie tra questo ciclo pittorico e quello di santa Marina di Delianuova (area appartenente a quel tempo alla diocesi di Tauriana): in entrambi i casi sono presenti all’interno dell’area affrescata motivi geometrici (in uso nei luoghi di culto iconoclastici e aniconici) e le figure senza il volto, soluzione questa, a nostro sommesso parere, ricercata e voluta. Si è voluto rappresentare comunque all’interno del sacro recinto del santo “gli amici di Dio” (i santi), attraverso una rara raffigurazione iconoclastica espressione di una tendenza di aniconismo “dello spazio vuoto” [2], anche se poco diffusa nella provincia bizantina calabrese.
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Bibliografia e fonti:
1) E. FOLLIERI, “Un canone di Giuseppe Innografo per S. Fantino <il Vecchio> di Taureana”- Revue des Etudes
Byzantines, XIX, Parigi 1961.
2) F. COSTABILE, “Il ninfeo romano ed il complesso monastico di S. Fantino a Taureanum”- Klearchos 1976.
3) A. ACCONCIA LONGO 1995, La vita e i miracoli di S. Fantino di Tauriana e l.identificazione dell.imperatore Leone .eretico.,«Rivista di Studi bizantini e neoellenici», n.s. 32, pp. 77-90.
4) G. OTRANTO Vetera Christianorum Dipartimento di Studi classici e cristiani Università degli Studi Bari 1995.
5) D. MINUTO La Calavria Romaica Venezia 1996 .
6) M. FALLA CASTELFRANCHI, “Pitture “iconoclaste” in Italia Meridionale? Con un'appendice sull'Oratorio dei Quaranta Martiri nella catacomba di Santa Lucia a Siracusa”, in Bisanzio e l'Occidente: arte, archeologia, storia. Studi in onore di Fernanda de' Maffei, Roma, Viella, 1996, pp. 409-425;
7) F. ANGIÒ 1997, Tauro, Taureana e le Saline, «Rivista Storica Calabrese», n.s. XVIII, pp. 61-69.
8) A. ACCONCIA LONGO 1999, Tradizioni agiografiche di Calabria: la vita e i miracoli di S. Fantino di Tauriana, in S. LEANZA (a cura di), Calabria Cristiana. Società Religione Cultura nel territorio della Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi. Dalle origini al Medio Evo, Atti del Convegno di studi (Palmi-Cittanova, 21-25 novembre 1994), Soveria Mannelli, pp. 527-538.
9) R. AGOSTINO 1999, Nuovi dati archeologici dall.area del complesso cristiano di S. Fantino, in S. LEANZA (a cura di), Calabria Cristiana, cit., pp. 191-210.
10) R. AGOSTINO 2001 (a cura di), Palmi un territorio riscoperto. Revisioni ed aggiornamenti. Fonti e ricerca archeologica, Soveria Mannelli.
11) R. AGOSTINO ZAGARI F. 2001, Gli scavi di S. Marina a Delianuova (RC): relazione preliminare (1999-2001), «Archeologia Medievale », XXVIII, pp. 341-348.
12) D. MINUTO, “Pietro Vescovo Occidentale – La Vita e i Miracoli del Santo Servo di Cristo, Fantino”- Giuseppe Pontari Editote, Reggio Calabria 2003