Cosa vedere in Calabria:
diciasette luoghi da vedere nella Costa Viola a Palmi, tra storia, miti e leggende
La Costa Viola, così chiamata per il bellissimo colore delle sue acque, è tra i più suggestivi paesaggi marini che offre la Calabria: il suo “territorio” inizia dalla Tonnara di Palmi ed arriva fino alla rupe di Scilla lungo il litorale tirrenico. Le ripide dorsali del Massiccio dell'Aspromonte da cui è dominata, precipitano direttamente in mare: alti fino a 700 metri, i crinali sono interrotti solo da fratture geologiche e canaloni dove d’inverno scorrono impetuosi torrenti, le fiumare. La fitta macchia mediterranea con la gariga di finocchio selvatico, di origano e con le distese di ginestre, ricoprono le pareti a strapiombo, modellate a gradoni sorrette dalle “armacìe”, frutto del lavoro secolare dei contadini. In mare, gli scogli assumono le forme di orso, di elefante o di leone marino, numerose le grotte e magnifici i fondali con le meravigliose distese di Posidonea.
Discendendo lungo le coste boscose delle pendici che si sporgono sul mare, si possono ammirare le Isole Eolie, sulla soglia dell'orizzonte, al limite fra l'immagine e il mito. È come un simbolo del passato, e fornisce utili idee per il futuro: sul mare si scorgono una o due barche, magari quella caratteristica per la pesca del pesce spada, ma la storia di questa terra e delle acque su cui si affaccia, brulica di navi. Quelle che seguivano la rotta dell'ossidiana, nella preistoria lontanissima, per tanti aspetti ancora assai vicina (forse quei marinai si riposarono rifocillandosi nella vicina grotta di Trachina); quella di Ulisse e Oreste, e ancora le navi fenicie e quelle di Cartagine; le bellicose navi lunghe romane e successivamente le flotte delle onerarie che durante le età romana imperiale e poi bizantina percorsero la rotta marittima dell'annona.
Taureana la bella
Taureana tardo antica e bizantina aveva stretti rapporti marittimi con Taormina e con Siracusa; e possiamo supporre che anche per mare ne avesse con Vibona (oggi Vibo Valentia), che, come Taureana, era una tappa ben nota lungo gli antichi itinerari terrestri. Non per niente, fra le poche cose che oggi possiamo ammirare di questa antica città, c'è un tratto di strada romana. Su questo mare, poi, viaggiarono i Saraceni, che apportarono sciagure e terrori, ma anche prodotti di pace e di civiltà. E lo percorsero i santi: Bartolomeo, che, dice la sua leggenda, navigò dentro la bara dall'Armenia a Lipari; tutti gli asceti siciliani, che esaltarono le potenzialità religiose della terra calabra; e, prima di loro, san Fantino, che miracolosamente cavalcava sulle acque.
La biografia scritta dal Vescovo Pietro ci informa che anche numerosi personaggi di Taureana facevano parte dell'alta società di Siracusa. D'altra parte, le Saline (così era chiamato in età bizantina il territorio dominato da Taureana) avevano assunto una grande importanza, tanto che in una favola scritta ai tempi del vescovo Pietro si afferma che un re, il quale, secondo questo racconto, dominava tutta la Calabria meridionale, aveva la sua reggia appunto nelle Saline, dove ospitava come un figlio Tauro, leggendario fondatore di Taureana e di Taormina. Nei secoli successivi a poco a poco il prestigio della città andò scemando in favore di Seminara, che sorge vicina.
Qui fu trasferito sia il ricordo di san Fantino che di un monastero maschile in suo onore. Nel frattempo molte incursioni saracene apportarono scompigli e nuove distruzioni nell'antica città ed anche il Tempio del Santo ne dovette subire la violenza: lo deduciamo dal fatto che oggi la cripta presenta brandelli di affreschi bizantini, che sembrano risalire al X secolo, segno che era ritornata ad essere frequentata come luogo di culto principale. D'altra parte, mentre la cripta è giunta fino a noi quasi del tutto integra nella struttura muraria, del tempio frequentato durante l'età del vescovo Pietro ci sono rimasti pochi ruderi, nascosti dalla terra e dalla chiesa di età moderna che fu costruita sopra la cripta e sopra il tempio, con un orientamento diverso dell'altare principale e con pianta ellittica. Probabilmente il tempio era stato distrutto dalla furia dei saccheggiatori e non fu più ricostruito.
I Normanni, all'inizio del secondo millennio, tolsero a Taureana la dignità di sede vescovile in favore di Mileto, che condivise con il vescovato di Oppido la cura pastorale per tutto il suo territorio.Davanti alle “Pietre delle Navi” sul pianoro di San Fantino, si erge in tutta la sua bellezza la “Torre di Pietrenere”, comunemente chiamata dal popolo “Torre di San Fantino”. Questa torre di avvistamento fu costruita dagli Spinelli nel 1565, per proteggere il territorio di Taureana e la Città di Seminara dalle incursioni saracene. Una serie di torri lungo la costa e verso l’interno permettevano che il segnale di allarme giungesse in tempo per dare modo alla popolazione di rifugiarsi entro le munite mura di Seminara.
A confermare il giusto nome della torre riportiamo alcuni versi della favola di Donna Canfora recitati dalla signora Romeo di Taureana:
“Supra a turri i San Phantinu, Camfurella avìa ‘nvillinu, era cusì longu e gatu, chi si vidìa tuttu lu creatu, a ddhu puntu e i ddhu locu cu li stiddhi cuntattaru, nu jiornu Canfurella di luntanu, su lu latu destru di Vurcanu, vitti nu bastimentu chi trasìa, vinnaru li Saracini e si la arrobbaru, u pè mìa … (la signora Romeo non ricorda bene) … Canfurella si jettau a mari e morìu e cussì, a storia finiu".
La tradizione ci narra: Donna Canfora era una donna di straordinaria bellezza. Se ne era estesa la fama. Alcuni corsari, volendola rapire, vennero alla spiaggia sottostante con una barca carica di fini e ricche mercanzie e di oggetti rari di smercio. Attirava molta gente e anche donna Canfora, accompagnata dalla propria fantesca, vi andò a fare compere, benché ne fosse distolta da un triste presentimento che proprio quel giorno le si era cacciato nell’animo. La causa probabile, scrive Antonio de Salvo in “Metauria e Tauriana” fu per un cigolio lamentevole prodotto dallo girar veloce di un arcolaio, attorno a cui trovavasi a dipanare matasse di lana. Come fu presso ai mercanti, questi la rapirono e subito salparono dal lido, non senza sanguinosa lotta con la gente che era accorsa in aiuto della bella Canfora: la quale, vedendosi già perduta, chiese in grazia ai corsari di essere lasciata un poco libera sulla poppa della nave a poter vedere per l’ultima volta il suo paese nativo; e ciò concessole, non appena si vide libera, si buttò in mare e affogò.
Nelle vicinanze della Torre, si trova una fabbrica rettangolare, costruita con larghi mattoni lungo circa sedici metri e largo otto ed alto poco più di due metri. La Soprintendenza Archeologica della Calabria in collaborazione con l’Università di Matera, hanno condotto delle ricerche effettuando degli scavi in tutta l’area. I risultati permettono di affermare che probabilmente tra la fine del II e la prima metà del I sec. a.C. venne costruito l’imponente nucleo in cementizio, noto tradizionalmente come “Palazzo di Donna Canfora”, rimasto sempre in luce nei pressi del versante nord-orientale dell’altura su cui sorgeva l’acropoli della città. Il grande nucleo in cementizio viene identificato come pertinente al podio di un tempio italico, mentre il nuovo tratto di fondazione portato alla luce sul lato nord, potrebbe riferirsi ai resti dell’avancorpo della fronte dell’edificio, sulla quale era impostata la scalinata di accesso alla cella. Tale edificio doveva disporsi su un’ampia terrazza che dominava il mare e la piana del Metauro, delimitata su tre lati da una sorta di triportico o da lunghi ambienti coperti, secondo modelli ampiamente noti nell’architettura centro-italica di età tardo-repubblicana. A tale epoca sembrano rimandare anche i materiali rinvenuti, anche se lo stadio ancora preliminare della ricerca non consente per ora di puntualizzare la cronologia dell’impianto e delle sue varie fasi costruttive. (Rossella Agostino, 2001).
figura sotto: Santuario Romano conosciuto come palazzo di donna Canfora
Trachina la primitiva
Navigando lungo la costa in direzione sud, si attraversa la costa della Tonnara, al termine della quale svetta imperioso lo Scoglio dell’Ulivo, sulla cui sommità, ormai da tempo immemorabile cresce un albero di olivo selvatico (Agliastro).
Dietro lo scoglio, protetta dalla naturale scogliera che ne vieta l’accesso, una piccola spiaggia che prende il nome della zona “Trachina”.
Nella costa soprastante la spiaggia, nascosta dalla vegetazione si trova la Grotta di Trachina, una cavità naturale piuttosto spaziosa che i segni del passaggio umano fanno pensare destinata a un uso culturale.
foto sotto:
- vista della spiaggia di trachina
- vista della spiaggia di trachina(foto Eugenio Crea)
- le grotte di trachina
I dolmen di Palmi
Poco più avanti, quasi a picco sul mare si ammira una grande casa nobiliare semidistrutta; si tratta di casa Oliva. Nei pressi si trovano tre naturali rialzi di roccia calcarea, che sempre furono denominati Triari (anche lo sperone sul mare anticamente veniva chiamato “Capo Triari”), si osservano tutt'ora quatto grossi e alti massi calcarei, disposti a dolmen, con tre di essi drizzati verticalmente a triangolo, e l’altro più largo a piatto, posato su di questi, all’uso celtico, da lasciare al disotto, lo spazio per potervi inumare un uomo. A ciò si accompagna il ritrovamento, sotto un gran sasso calcareo, di mezzo cranio schiacciato, con mezzo mascellare inferiore di cervo, e il tratto della radice del corno, e spezzoni di ossa lunghe semi fossilizzate, forse resti di offerte votive (A. De Salvo “da Palmi e dal Suo Sant’Elia).
photogallery sotto: Casa Oliva
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Spiaggie della Petrosa e Villa di Leonida Repaci
Continuando il percorso, incontriamo la spiaggia della Pietrosa. Essa ci ricorda lo scrittore Leonida Repaci che proprio in cima alla scogliera aveva la sua residenza, immersa tra gli ulivi e i cipressi, in cui viveva insieme alla moglie Albertina nei mesi estivi. Repaci può essere considerato uno dei narratori più importanti del novecento. Questo nostro grande scrittore in “Calabria grande e amara” così scrive:
«[…] Qui la calma e la bellezza dell’ulivo che si specchia nel viola del mare con le sue foreste resta nel ricordo con una dimensione omerica, come se a fondare queste cattedrali di ulivi che respingono la luce del sole, solo permettendo alle felci arboree di crescere tra tronco e tronco, fossero stati giganti o eroi del mito, non piccoli uomini qualunque.»
foto sotto:
- Spiaggia della Pietrosa(foro Domenico Surace)
- Guardiola di Villa Repaci
Porto Oreste
Passata la Pietrosa, vediamo la spiaggia di Buffari che significa porto in greco antico; poco più avanti siamo sotto la località “Colonna” che certamente nel nome ricorda i ruderi nella mitica città di Porto Oreste citata da diversi autori, ma che forse non è mai esistita. «Il nome di questo porto si riferisce alla eroica tradizione del figlio di Agamennone, il quale reso furibondo per aver ucciso la madre Clitennestra, era ammonito dall’oracolo che per liberarsi dalle furie che lo agitavano, doveva prima trovare la sorella e poi purificarsi in un fiume che da sette altri fiumi o sorgenti prendeva le acque. Rinvenuto dunque in Tauriade (Tauriana, così chiamata da Plinio secondo seniore) dopo aver vagato per molte regioni, trovò nel confine de’ Reggini il fiume dall’oracolo designato; nel quale purificatosi, restò libero da’ furori che lo travagliavano.» Questa favolosa tradizione tramandataci dagli antichi scrittori, con l’indicazione geografica dei sette rami del mentovato fiume, hanno guidato i topografi dell’antichità a trovare nel Metauro (oggi Petrace) il Fiume di cui il mito e, con esso, il Porto Oreste o Rovaglioso, tra le rovine di Taureana. (N. Corica “Brezza” anno…cap. 17 parag. 25 “Portus Orestis”).
Cosa c’è di vero in questa leggenda ? Nel pianoro soprastante la scogliera di Rovaglioso, si scorgono ancora i ruderi di una cappella gentilizia consacrata alla Vergine Madre di Dio sotto il titolo di S.Maria di Porto Oreste, di proprietà del nobile filantropico e religioso Ludovico Iannelli, eretta nel 1797. Ne fa fede una lapide di marmo murata nella parete sinistra della cappella come racconta G. Silvestri Silva, anno 1886. «In fondo alla medesima cappella si ergeva un altare con colonne doriche sul quale faceva mostra di sé un quadro maestoso dipinto ad olio raffigurante la Madonna di Porto Oreste. La Madonna era in piedi, con le mani giunte, tra un’aureola di nubi, in atto di ascendere al cielo; a sinistra stava san Rocco e alla destra san Francesco entrambi genuflessi in piena adorazione; nella parte inferiore del quadro si ammirava uno squarcio del sublime paesaggio di Portus Orestis soprastante l’insenatura del mare sopra cennata la cui prima fila dei palagi mostravasi sulla roccia quasi a picco sul mare e tra questi spiccava imponente un’alta torre merlata e un tempio.» (Silvestri Silva, 1981)
FOTO SOTTO:
Rovaglioso o Porto Oreste (scattata da Antono Aricò)
Spiaggia di Buffari( Ph.Eugenio Crea)
Pietra Santa e Capo Barbi
Continuando il nostro percorso costiero, passiamo davanti a “Pietra Santa” e “Capo Barbi”, chiamato dalla gente del luogo “mussu i Prita” o “scogghiu i Prita”, che costituisce il vertice dell’angolo ottuso, sporgente, della conformazione della costiera, e rientra in una agevole insenatura e calanca, con una proda naturale, interna (riparata dai venti di libeccio e di ponente) in una angusta grotta, a fior d’acqua, ai piedi di un alto e orrido precipizio chiamato Sirena.
Più avanti “la Motta” un’alta rupe (circa 130 metri sul mare) che è proprio a perpendicolo e arriva, con in cima un magnifico belvedere fatto costruire dal Comune con l’opera di don Nino Managò, valente Capo cantoniere che ha costruito anche il belvedere di Sant’Elia. A. De Salvo in “Palmi dal suo San’Elia”scritto nel 1939, racconta la visita dei reali Savoia: «S.M. il Re Vittorio Emanuele III venuto a soccorrere e visitare magnificamente questa sventurata Palmi, nella mattina del I aprile 1909 (a seguito ai disastri del terremoto del 28 dicembre1908) essendo sbarcato all’approdo della calanca di Rovaglioso, già Porto Oreste, nello spingere istintivamente i suoi sguardi per l’orizzonte, verso Pietrenere, esclamò “altro che Sorrento!»
foto sotto:
- Punta Motta e Capo Barbi viste dall'Acqua dei Cacciatori presso il sentiero Tracciolino (PH. Eugenio Crea)
- Il belvedere di Sant’Elia (ph Patrizia Arena)
- Precipizio Sirena tra Capo Barbi e punta Motta
- Punta Motta al Tramonto
La Marinella
La Marina di Palmi (comunemente chiamata Marinella), è una borgo marinaro di Palmi formato poche case e da una piccola spiaggia antistante una baia racchiusa tra alti speroni di roccia. La bellezza della baia ha contribuito, nel 2014, all'assegnazione da parte di Legambiente di 3 vele blu al comune di Palmi, ponendo la città al terzo posto in tutta la Calabria.
La Marinella è la spiaggia dei Palmesi. In passato fu utilizzata soprattutto come porto, poiché servì per svolgere le attività marinaresche e di commercio, alla popolazione della “Cittadella” (primo nucleo della città di Palmi), dopo la distruzione di Taureana avvenuta tra il X° e XI° secolo. Caratterizzata da una meravigliosa scogliera, con acque dolci affioranti e profumate di alghe marine, la Marinella presenta ancora una bellezza selvaggia ed aspra nonostante il lento e costante degrado cui è soggetta.
Storicamente questo luogo è stato teatro di alcune vicende storiche degne di nota.
«[…] la Marinella di Palmi, che è piuttosto ciottolosa, ma di agevole approdo, con caseggiato, e alquanto incavata nella molto elevata conca rocciosa, fra il promontorio altissimo del Sant’Elia, e la rupe della Motta.» (A. De Salvo, 1939).
foto sotto:
La marinella di Palmi
Il Vallone San Michele.
San Michele di Vitica, è la contrada del Comune di Palmi situata sulle pendici di Nord Est del monte Sant’Elia, attraversata dall’omonimo vallone, ricco di acque, risorsa preziosa per l’economia dell’intera zona; sfocia nella spiaggia della Marinella e ha una storia illustre di cui restano tracce in ruderi di antichi mulini e trappeti, di mura di fortificazione la cui tecnica di costruzione merita un serio approfondimento (trattandosi probabilmente, da un primo esame, di mura normanne). La storia, sconosciuta ai più è conosciuta dagli studiosi grazie a preziosi documenti di archivio, soprattutto per la presenza nell’XI secolo di un monastero greco noto col nome di San Michele di Vitica, da cui ha preso il nome la contrada e il Vallone. Nel 1085 fu oggetto di donazione, da parte del Conte Ruggero il Normanno, per le sue rendite economiche, insieme ai possedimenti della chiesa di San Giorgio De Palmis, all’Abbazia di Santa Maria dei Dodici Apostoli di Bagnara. I diplomi normanni del 1110 e 1125 delimitano il feudo ecclesiastico di S. Maria dei XXII Apostoli, nel quale includono la zona Corona-Aulinas e la Chiesa della Corona come confermato dall’enciclica pontificia di Celestino III del maggio del 1192.
Il Monte Sant’Elia
Dal suo nome prese il nome il monte e, in epoca successiva grazie alla riconoscenza dell’Imperatore Leone IV, viene costruito il grande Monastero Imperiale poco lontano dal Monastero delle Saline, nei pressi dei “Piani della Corona” nel territorio di Seminara, detto anche “Monastero Imperiale” o “della Corona”.
La scoperta dei ruderi del monastero Imperiale di Sant’Elia è dovuta grazie alla ricerca condotta dalla Cooperatativa archeologica C.A.S.T. di Bari con la consulenza scientifica del prof. Carofiglio. La preziosa ricerca è contenuta nello studio rimasto ad oggi inedito, dal titolo “Etnoarcheologia di una eparchia marittima nel sud della Calabria” datata 1991.
foto sotto:
- Sant'Elia- tre croci by night
- Sant'Elia - tre croci
- Sant'Elia - Affaccio
- Sant'Elia- pietra del diavolo
La Pietra del Diavolo
Un’antica leggenda calabro-sicula racconta della lotta vittoriosa di Sant’Elia col diavolo, ricordata anche dal filosofo palmese Domenico Antonio Cardone. “La Leggenda del monte S.Elia” è scolpita nel monumento eretto al filosofo sulla cima del Monte.
La storia è la seguente: «Sul ciglione del tratto più alto di questo monte, poco discosto, a ponente, dal sito dove sorge un muretto con in cima tre croci innalzate a calvario, dette Croci di Sant'Elia, si osserva tuttora un rudero, resti di qualche casetta, ed è vicino ad un masso spianato di granito, il quale presenta impronte quasi come di ginocchia o di pugni. Da ciò si trasse la favolosa tradizione, cioè che Sant'Elia Iuniore, nel fabbricarvi il convento ne era contrariato e tentato all'ira dal demonio, col diroccare durante la notte, quanto veniva edificato nel giorno; ma che, come il Santo lo ebbe a sorprendere, lo scaraventò lontano, nel mare sottostante, facendolo urtare violentemente contro siffatto masso dove restarono le dette impronte. E con tale forza che maggiore non l'adoperò l’irato Giove col suo potente fulmine, a rovesciare e precipitare Fetonte, disobbediente e incauto figliuolo del Sole, nel veder che guidava il carro del genitore, troppo accosto alla Terra, col pericolo d'incendiarla! Altri aggiungono, che il demonio, vedendosi vinto dalla santità del monaco basiliano, tornò a tentarlo col proporgli, che non più l'avrebbe disturbato, purché esso gli permettesse di formare un luogo d'inferno, al punto dove il Santo (creduto debole eremita) lancerebbe il ben grosso bastone, a cui questi si appoggiava. Ma Sant' Elia miracolosamente lanciò il proprio bastone nell'estremo limite del mare visibile, cioè al posto di Stromboli; in cui il demonio poi, tutto ira e fuoco, fu costretto allocarsi, eruttando ripetutamente lave, fumo, e scuotendo tutta questa regione attorno, con frequenti terremoti e sinistri boati. Per i quali, una vecchia leggenda riferisce essere questi, gli urli dell'anima di Carlo Martello, condannato in quegli abissi, e che oltre a ciò, nel medioevo, i guerrieri crociati, che vi transitavano sul mare vicino, navigando verso Terra Santa, asserivano di udire i gemiti delle anime del Purgatorio, le quali li supplicavano a pregare per esse.»
(A. De Salvo, 1939. “Palmi dal suo Sant’Elia”).
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Sant'Elia - La pietra del Diavolo
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Arcudaci
La punta di Arcudaci, o Arcuraci è la parte del Monte Sant’Elia che si immerge a strapiombo sul mare della Marinella. Antonio De Salvo dà l’interpretazione classica al nome, cioè a piè di esso, ai piedi del monte. Nella tradizione locale il nome “Arco di Aiace”, evoca una avventura del leggendario Aiace eroe greco della battaglia di Troia, che secondo la leggenda navigando verso le Isole, fu sorpreso da un fortunale. Spinto dalla furia del mare, trovò riparo negli anfratti della Marinella, già allo stremo delle forze, si mise in salvo issandosi sugli scogli con l’aiuto del suo arco. Gli studiosi, però danno un’altra interpretazione al toponimo, probabilmente legato alla forma della roccia simile ad un orso, infatti la derivazione dal greco-bizantino significa ‘arcto’ovvero promontorio con le sembianze di un orso.
Pietra Galera
È la prima insenatura, dopo la Marinella. Il nome ricorda i tempi delle cruente invasioni saracene. Si racconta che in questa spiaggetta, non lontano dalla strada di accesso alla Cittadella, ma abbastanza nascosta da non essere veduti, i saraceni tenessero prigionieri catturati nelle loro scorrerie, in attesa del riscatto.
foto sotto:
Pietra Galera, la micro-spiaggetta...
(Costa Viola, Palmi)
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La fontana "Acqualivi" e la Pietra del Drago
La fontana oggi non esiste più ma rimane un’antica storia: «In tale epoca, giusto come rilevasi da un’antica tradizione, tramandata fino a noi, i corsari, venuti nuovamente alla marina di Palmi, vi sbarcarono in numero considerevole, e contro questa terra, benché munita, si avanzarono minacciosi per l'erta, avidi di saccheggio. A metà strada, oppressi dal calore, si accamparono presso la fontana dell’Acqua degli ulivi, all'ombra degli alberi per riposarsi e prender lena; colà alla sprovvista, disarmati e dormenti vennero assaliti dai cittadini con tale impeto che in gran numero rimasero uccisi, pochi si salvarono con la fuga prendendo di nuovo il mare; il loro capo a nome Dragut, cadde al suolo gravemente ferito, i cittadini lo raggiunsero, lo sdraiarono sopra una pietra, e ivi l'uccisero; troncategli poscia il capo, sulla punta di un'asta, in trionfo lo portarono in giro pel paese.
La pietra su cui Dragut ferito erasi rinvenuto disteso, fino a pochi anni dietro mostravasi ancora e veniva chiamata la pietra del drago, abreviazionc di Dragut. Questo fatto, che, come il più accetto, trascriviamo dalla Cantica del nostro concittadino Oliva, viene da altri narrato con qualche diversità: né noi lo riteniamo vero in tutto, massime circa l'uccisione di Dragut Kais, che con l'Oliva giudichiamo essere certamente falsa, e nata forse dall'aver creduto i terrazzani di Palma o Carlopoli, nell'uccidere il capo di quella torma di pirati musulmani, avere ucciso il feroce e giustamente odiato Dragut, che tanto danno aveva apportato alla loro patria. Pertanto esiste tuttora, presso il luogo dell'avvenimento, un’edicola con una nicchietta, nella quale è dipinta ed esposta alla divozione dei pietosi passanti, una immagine della Madonna del Carmine con le anime del purgatorio; e questa edicola, dalla gente del luogo viene chiamata la Croce dei morti, in memoria dell'eccidio, ivi accaduto, non solo dei Turchi, ma pure dei terrazzani di Palma: i quali, avvisati dai torrieri, dell'avvenuto approdo e sbarco di corsari, si erano in fretta raccolti, per affrontarli con vantaggio, e respingerli prima che questi avessero raggiunto il piano sulla costiera. E infatti la Pietra del drago era sita sulla spianata, di lato alla strada che mena alla Marinella, a circa duecento passi al sud dell'edicola suddetta: la quale sorge al punto dell’incrociamento di questa strada, con un'altra più larga, chiamata anticamente Strada degli olmi, che si parte dalla porta diruta (Portello) del lato occidentale delle mura di cinta di Palmi, e si dirige alla torre, oramai diroccata, sulla vicina costiera di ponente.»
Caletta Sorrentino
Qualche anno fa Sant’Elia Speleota è apparso in sogno a un devoto di Bagnara, un valente pasticciere e, dunque, non archeologo, e gli ha chiesto di riparare un suo romitorio sulla spiaggia ai confini dell’antica proprietà del monastero di Melicuccà. Guidato dal sogno il devoto pasticciere, perlustrando con la barca la marina fra Bagnara e Palmi, ha trovato il romitorio e l’ha restaurato, secondo i suoi gusti. Si trova esattamente dove le antiche carte indicano i confini del monastero. Sull’altarino della chiesetta, che si raggiunge soltanto con la barca, il devoto ha posto un cartello dove c’è scritto: «si accettano offerte di preghiere, non di soldi» (D. Minuto, 2002).
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Caletta Sorrentino
Spiaggia del Leone
Molto interessante, il racconto tramandato da padre in figlio tra i pescatori di quest’area. Si racconta che il nome di questa parte della costa viola, sia dovuto alla presenza in tempi antichi di una colonia di leoni marini o otarie, mammiferi adattati al nuoto con gli arti trasformati in pinne.
L’altra ipotesi, è stata avanzata dall’antropologo Serge Collet, nel convegno “I santi delle Saline”, tenutosi a Melicuccà nel luglio del 1994, «[… ] e ben pensabile che il monastero Imperiale di Sant’Elia sui Piani della Corona, avesse contatti con la Sicilia e Costantinopoli, attraverso la via del mare, e quindi l’approdo naturale sottostante (trattasi della spiaggia del Leone), sia legata al nome dell’Imperatore Leone di Costantinopoli, benefattore del Monastero, con cui il monaco Elia ha avuto intensi rapporti».
Cala Ianculla
Cala Ianculla si trova al centro della costa Viola nel comune di Seminara, ed è sito comunitario. Vi si accede soltanto dal mare, ha una bellissima spiaggia di sabbia bianchissima incorniciata da alti scogli, una magnifica grotta visitabile in barca e si affaccia proprio sullo scenario dello Stretto e delle isole Eolie.
Lega Ambiente, dopo un attento monitoraggio dei litorali del Belpaese, ha selezionato Cala Janculla tra le 11 spiagge più belle d'Italia.
foto sotto:
- Cala Ianculla( fonte dal web)
- Cala Inculla e costa viola,vista panoramica(fonte: https://www.facebook.com/Crescere-CC%C3%80-276880046091857/)
Le Grotte della Costa Viola
La costa viola è il mondo delle insenature nascoste e delle grotte raggiungibili solo via mare. Tra le tante qui si propongono le tre più famose:
- Grotta del Monaco
- Grotta delle Rondini
- Grotta Perciata